Partito comunista italiano. Federazione provinciale, Bologna

1943 - 1991

1. Fondazione e ricostituzione della Federazione bolognese del Partito comunista italiano

La Federazione bolognese del Partito comunista italiano (Pci) si ricostituì ufficialmente tra il 20 e il 21 agosto 1943, quando in un appartamento di via Fondazza, a Bologna, si tenne la prima riunione del Comitato federale, l'organismo di direzione politica della federazione. Molti dei dirigenti presenti all'incontro erano reduci dal carcere e dal confino di polizia e l'organizzazione comunista contava appena 1.500 iscritti, fino ad allora costretti alla clandestinità. Alla riunione presero parte Umberto Ghini, Dalife Mazza, Leonildo Tarozzi, Mario Peloni, Antonio Cicalini, Celso Ghini, Gaetano Chiarini e Vittorio Ghini.

Le dimissioni di Mussolini e la nomina del maresciallo Pietro Badoglio alla guida dell'esecutivo il precedente 25 luglio avevano difatti consentito la riorganizzazione dei partiti e delle associazioni che la legislazione fascista del biennio 1925-1926 aveva disciolto. L'occupazione delle sedi degli enti accusati «di esplicare azione contraria al regime fascista», e gli arresti di un certo numero di deputati e di militanti d'opposizione quali conseguenze dell'approvazione di quelle misure straordinarie, avevano inoltre determinato l'immediata cessazione delle attività pubbliche dell'organizzazione comunista su tutto il territorio nazionale a soli cinque anni dalla sua costituzione.

Il Pci era, infatti, nato a Livorno il 21 gennaio 1921, con l'iniziale denominazione di Partito comunista d'Italia (Pcd'I), a seguito della secessione dei massimalisti, esponenti dell'indirizzo rivoluzionario, dal Partito socialista italiano (Psi), d'orientamento più moderato e riformista. Pochi giorni dopo, il 31 gennaio 1921, anche a Bologna, in ossequio ai deliberati del congresso livornese, i soci dell'Unione socialista bolognese, aderenti all'indirizzo Bombacci-Bordiga, avevano fondato una sezione comunista. Tra i comunisti bolognesi più noti vi erano Enio Gnudi e Giuseppe Dozza, segretario della locale Federazione giovanile comunista d'Italia (Fgcd'I), sorta già il precedente 29 gennaio per il mutamento di denominazione della Federazione giovanile socialista italiana (Fgsi). Il 20 marzo presso il circolo Ca' de Fiori dei ferrovieri nel quartiere della Bolognina fu convocato il I Congresso provinciale del Pcd'I. Tra il 1921 e il 1930 la Federazione bolognese celebrò quattro congressi: dopo quello costitutivo del 1921, il II Congresso si svolse a Bologna il 29 gennaio 1922, mentre il III e il IV, tenuti entrambi in clandestinità, si svolsero rispettivamente nell'autunno del 1925 nell'abitazione bolognese di Bruno Monterumici e nel settembre 1930 in casa di un tale Marini in via Ferrarese a Bologna.

Se la Federazione comunista bolognese, in quanto organizzazione formalmente costituita, dovette cedere il passo di fronte alla brutalità della repressione fascista, nondimeno si può negare al comunismo bolognese quella continuità d'azione che il Congresso di Lione del 1926 aveva individuato quale elemento fondamentale della strategia politica e di lotta. Nelle parole dei protagonisti dell'epoca tale circostanza è espressa in termini inequivocabili. Così Pietro Secchia: «Durante i diciassette anni di leggi eccezionali, in Emilia più che nelle altre regioni, il nostro lavoro organizzativo si sviluppò quasi senza soluzione di continuità. Non vi furono periodi di lunghe interruzioni. Malgrado la reazione ed i numerosi arresti le nostre condizioni di lavoro furono sempre migliori che nei grandi centri industriali».

Dopo le memorie dei protagonisti, proprio gli elenchi dei confinati e dei processati dal Tribunale speciale, nonché i dispositivi delle sentenze delle condanne inflitte, sono tuttora considerati la fonte principale da cui trarre la testimonianza dello sviluppo del partito negli anni della dittatura fascista. Gli antifascisti bolognesi condannati dal Tribunale speciale tra il 1927 e il 1941 furono 400, ai quali vanno aggiunti oltre un centinaio di assolti. 390 erano comunisti, condannati con le imputazioni di appartenenza, di propaganda, di organizzazione o di ricostituzione del Pci. Relativamente elevato fu inoltre il numero dei militanti comunisti bolognesi incaricati dal centro del Partito di assolvere funzioni dirigenti in altre province e regioni e condannati dal Tribunale speciale a lunghe pene detentive. Dall'analisi delle sentenze risulta infine come un inteso lavoro di proselitismo venisse compiuto dai comunisti bolognesi tra i lavoratori delle fabbriche e nelle organizzazioni di massa del fascismo. Fino ai primi anni Quaranta, l'organizzazione comunista bolognese, più che nelle strutture, sembrò esistere dunque nelle menti e nell'operato dei suoi membri.

Una nuova fase si aprì per i comunisti bolognesi solo dopo l'ingresso dell'Italia nel conflitto mondiale: l'intensificarsi dei rapporti tra i militanti antifascisti portarono il Pci, il Psi e il Partito repubblicano italiano (Pri) a dar vita a Bologna nel settembre 1942 a un primo "Comitato di azione antifascista", aperto anche agli altri partiti e alle forze contrarie al regime. Per il Pci parteciparono Leonildo Tarozzi, Mario Peloni e Leonida Roncagli.

Secondo una testimonianza di Umberto Ghini raccolta da Antonio Roasio, nei primi mesi del 1943 fu inoltre convocata «in un recapito sicuro di via Rialto una riunione dei migliori compagni di Bologna [...] Dopo un esame del lavoro realizzato il compagno Roasio, che era arrivato a Bologna in quel periodo, affermava che era giunto il momento di fare un passo avanti nel rafforzamento della direzione politica dell'organizzazione di partito, e di costituire il comitato federale». Nel giugno 1943 Pci, Psi e Pri costituirono, infine, il Comitato regionale "Pace e libertà" (antesignano del Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna), e concordarono un programma d'azione politica da svolgere in città e nell'intera regione. Il giornale ufficiale del Comitato regionale, «Rinascita», fu diretto dal comunista Tarozzi, mentre i comunisti Peloni e Luigi Gaiani prestarono la loro opera nel Comitato militare, l'organo incaricato dal Comitato regionale di disporre l'organizzazione e i mezzi per la lotta armata.

Alla vigilia della ricostituzione ufficiale della Federazione il segretario dell'organizzazione comunista bolognese era Umberto Ghini, che proprio a seguito del voto unanime del Comitato federale pronunciato nella riunione del 21 agosto 1943 cedette il testimone ad Arturo Colombi, rientrato il giorno prima dal confino di Ventotene.

Dopo la breve riammissione dei partiti d'opposizione nella sfera della legalità voluta dal primo governo Badoglio, l'occupazione tedesca di Bologna il 9 settembre 1943 e l'avvento della Repubblica sociale italiana (Rsi) costrinsero la Federazione bolognese a riprendere il lavoro cospirativo. Colombi fu inviato a Torino, e alla guida della Federazione bolognese giunse il milanese Giuseppe Alberganti.

Nel corso della guerra di liberazione e fino al 21 aprile 1945, l'organizzazione bolognese fu diretta da una Segreteria della quale fecero parte, per periodi più o meno lunghi, numerosi esponenti: oltre i segretari Ghini, Colombi e Alberganti, si ricordano Giuseppe Dozza, Fernando Zarri, Dalife Mazza, Giovanni Bottonelli, Luigi Orlandi, Paolo Betti, Onorato Malaguti, Agostino Ottani, Gustavo Trombetti, Alfeo Corassori e Giacomo Masi.

La Federazione fu inoltre rafforzata con una serie di nuove strutture "straordinarie" di diverso livello, a cominciare dal Triumvirato insurrezionale, un organo istituito dalla Direzione nord del Pci nelle regioni dell'Italia occupata per far fronte alle necessità di preparazione, coordinamento e direzione di tutte le forze politiche e militari del partito. Il Triumvirato fu composto per l'Emilia-Romagna da Ilio Barontini, Renato Giacchetti e Giuseppe Alberganti (questi ultimi due furono in seguito sostituiti da Giuseppe Dozza e Fernando Zarri). Un comitato cittadino capeggiato da Luigi Orlandi e un comitato provinciale diretto da Giorgio Volpi assicurarono a partire dall'ottobre del '44 la guida politica dei comunisti bolognesi.

Dal 16 settembre 1943 Paolo Betti, quale rappresentante dell'organizzazione comunista, sedette inoltre nel Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna (Clner), l'organismo di coordinamento, organizzazione e direzione dell'intero movimento di liberazione sul territorio regionale; lo stesso Betti, insieme ai compagni Agostino Ottani e Giorgio Volpi, prese poi parte il 10 novembre 1944 alla ricostituzione della Camera confederale del lavoro (Ccdl) di Bologna.

Il comunista Ilio Barontini fu infine chiamato alla guida del Comando unico militare Emilia-Romagna (Cumer) del Corpo volontari della libertà (Cvl), un organismo costituito agli inizi del mese di luglio 1944 quale evoluzione del già citato Comitato militare per garantire l'unità d'azione delle varie formazioni partigiane operanti nel territorio regionale.

Dopo la liberazione di Bologna e la conclusione del conflitto mondiale, la Federazione bolognese fu guidata da Fernando Zarri, che rivestì la carica di segretario fino al giugno 1945, quando gli subentrò Arturo Colombi, segretario fino all'ottobre 1948.

In questo periodo la Federazione avviò un'intensa campagna di riorganizzazione e ricostruzione delle proprie strutture, la cui prima indicativa tappa fu rappresentata dal convegno regionale delle federazioni emiliane del Pci tenuto a Massenzatico di Reggio Emilia tra il 5 e il 6 giugno 1945 e presieduto da Luigi Longo, responsabile della delegazione della Direzione del partito per il nord Italia.

Il V congresso della Federazione bolognese, il primo dopo la liberazione, si svolse tra il 30 settembre e il 2 ottobre 1945 a Bologna, presso l'Arena del sole e la Sala farnese di Palazzo d'Accursio. In quella circostanza 500 delegati parteciparono in rappresentanza di circa 57 mila iscritti. Ad aprire il congresso fu il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza, mentre Arturo Colombi ne curò le conclusioni. L'assise bolognese elesse 70 delegati al congresso nazionale, il V nella storia del Pci e il primo del "partito nuovo", convocato a Roma per il 29 dicembre 1945.

Nella primavera del 1949, dopo il lungo periodo di clandestinità forzata, anche la Federazione giovanile comunisti italiani (Fgci) si ricostituì ufficialmente anche a Bologna sotto la guida del segretario Giuseppe Lambertini.

Intanto il 10 gennaio 1949 era stata fondata a Bologna la scuola nazionale di partito intitolata ad Anselmo Marabini, destinata a divenire il principale istituto per la formazione dei quadri politici dell'organizzazione a livello nazionale.

 

2. Organi statutari delle federazioni

Secondo lo statuto del partito, approvato dal V congresso nazionale del 1945 e più volte aggiornato dalle assise successivegli organi delle federazioni erano:

- il Congresso provinciale di federazione;
- il Comitato federale;
- la Commissione federale di controllo;
- la Segreteria di federazione;
- il Comitato direttivo;
- la Conferenza di federazione;
- il Consiglio di federazione.

Dalle federazioni dipendevano vari organismi di decentramento della direzione politica diffusi a livello capillare sul territorio, nei luoghi di lavoro e nei vari centri di vita culturale e associata: i comitati di zona, di comune e di quartiere, le sezioni e le cellule. Le cellule in particolare avevano il loro nucleo minimo in cinque iscritti e costituivano la forma dell'organizzazione del partito più diffusa sui luoghi di lavoro. L'organizzazione del partito immediatamente superiore era la sezione, costituita dalle cellule esistenti nella sua giurisdizione. Rispetto alla cellula, la sezione poteva essere territoriale o aziendale, e aveva una sede permanente.

 

3. Schema organizzativo della Federazione bolognese

Per quel che riguarda invece più nello specifico la struttura organizzativa interna alle federazioni, lo statuto riconosceva al Comitato federale la facoltà di costituire organismi di lavoro che svolgessero sul territorio la concreta attività di programmazione della federazione provinciale, secondo una distribuzione specializzata delle competenze, con posizioni gerarchicamente subordinate le une alle altre, e tutte dipendenti dalla Segreteria.

Il termine usato normalmente per indicare i settori nei quali era articolata la struttura organizzativa è "sezioni di lavoro". Queste si presentavano come "settori complessi", articolati a loro volta in settori "semplici", denominati quasi sempre "commissioni".

Allo scopo infatti di assicurare la più larga partecipazione dei militanti all'elaborazione delle questioni di partito, le varie sezioni di lavoro costituivano, in maniera occasionale o permanente, commissioni di studio, d'iniziativa o di lavoro.

I responsabili delle commissioni dipendevano gerarchicamente dal responsabile della sezione di lavoro di cui la commissione faceva parte. Le commissioni costituivano in realtà la vera struttura portante dell'organizzazione, e i settori complessi (quali le sezioni di lavoro) rappresentarono spesso delle mere aggregazioni "per materia" di settori semplici su cui esercitavano funzioni di coordinamento.

Dal 1945 al 1990 lo schema organizzativo della Federazione bolognese mutò più volte il proprio assetto.

Nel 1945 dipendevano dalla Segreteria cinque sezioni di lavoro: organizzazione quadri; agitazione e propaganda; lavoro agrario; lavoro nel Comitato di liberazione; lavoro sindacale.

Nel 1952 le sezioni si ridussero a quattro (organizzazione; lavoro di massa; stampa e propaganda; femminile), ma divenne più chiara la loro articolazione in commissioni. Dalla più importante delle sezioni, quella d'organizzazione, dipendevano nove commissioni (pianura; montagna; città; combattenti e reduci; donne; statistica; quadri; amministrazione; scuole di partito); cinque commissioni dipendevano dalla sezione lavoro di massa (sindacale; associazioni minori; cooperative; enti locali; lavoro agrario) e dalla sezione stampa e propaganda (cultura; redazione de "La Lotta"; centro diffusione stampa; propaganda orale; propaganda scritta); nessuna ulteriore articolazione aveva la sezione femminile.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta le sezioni di lavoro, sebbene aumentate nel numero, videro semplificarsi la loro articolazione e diramazione interna, a seguito soprattutto della conclusione della lunga battaglia politica per il "rinnovamento" avviata a livello nazionale dall'VIII congresso del 1956 e che portò qualche anno dopo anche a Bologna al passaggio da un modello organizzativo fortemente accentrato (con un rapporto diretto tra la Federazione e il territorio per il tramite, in primis, della sezione d'organizzazione) a un modello decentrato (con il rafforzamento degli organismi competenti territorialmente). Nel 1966 la Federazione bolognese contava sette sezioni (lavoro di massa; femminile; città; scuole di partito e organizzazione; stampa e propaganda; amministrazione; cultura), dalla maggior parte delle quali non dipendeva però alcuna commissione. Facevano eccezione il lavoro di massa, che coordinava quattro commissioni (problemi operai; sviluppo economico; enti locali; agraria), la stampa, articolata in tre commissioni (redazione bolognese de "L'Unità"; pace; associazione "Amici Unità"), e la culturale con una sola commissione (attività ricreative culturali di massa).

Nel 1975 le sezioni di lavoro della Federazione bolognese erano sei (stato, istituzioni, enti locali; femminile; problemi del lavoro, riforme e programmazione; scuola e cultura; stampa, propaganda, informazione; organizzazione), significativamente affiancate da due sezioni di collegamento con il Comitato regionale e con il Comitato cittadino.

Nel 1979, nel tentativo di superare il settorialismo generato dalla presenza delle sezioni di lavoro e per garantire una maggiore integrazione nel lavoro delle commissioni, si attuò una riorganizzazione interna con la creazione dei "dipartimenti". Nel 1986 se ne contavano sei: politiche sociali; informazione, stampa e propaganda; questioni economiche e dello sviluppo; politiche istituzionali e di governo; cultura; problemi del partito.

Inoltre, tra il 1975 e il 1986, quale effetto dell'esigenza di articolare la presenza del partito in sempre nuovi e maggiori campi di lavoro, si assistette all'aumento delle commissioni dipendenti dalle sezioni, poi dipartimenti: a metà degli anni Ottanta funzionavano difatti ben 26 commissioni variamente dislocate.

Nel 1988 i dipartimenti furono a loro volta sostituiti da "commissioni", che operarono fino al 1989, quando si giunse a una nuova ma effimera revisione dello schema organizzativo della Federazione bolognese.

Da una rapida analisi di quanto sopra esposto emerge come, aldilà del cambiamento delle denominazioni, che pure è molto significativo (basti il solo riferimento alla sezione "lavoro di massa", la cui intestazione mutò a metà degli anni Settanta in "problemi del lavoro, riforme e programmazione"), i settori di lavoro (le sezioni, i dipartimenti e, in ultimo, le commissioni) della Federazione bolognese rimasero pressappoco gli stessi, con un'evidente crescita, a partire dalla metà degli anni Sessanta, del peso degli studenti, degli insegnanti e degli intellettuali in generale nella vita del partito (paradigmatica è nel 1966 l'autonomizzazione della sezione culturale rispetto alla sezione stampa e propaganda).

La progressiva evoluzione dei settori semplici (vale a dire le commissioni) da funzioni "di line" per la mera trasmissione di impulsi dalla Federazione a tutti i campi di iniziativa comunista, a funzioni "di staff" a carattere specialistico, consente invece di appurare come nello schema organizzativo della Federazione bolognese si sia passati «da un modello fortemente centralizzato, adatto ad affermare il primato del partito e a trasmettere le sue direttive [...] ad un modello che prevede il decentramento di alcune importanti funzioni su base territoriale e che riconosce la distinzione e l'autonomia del sindacato e delle organizzazioni di massa, delle amministrazioni, del giornale del partito».

 

4. Presenza nelle amministrazioni locali: il "modello emiliano"

La presenza dei comunisti bolognesi nelle amministrazioni costituì un altro importante veicolo per il radicamento del Pci nella realtà provinciale e per la sua trasformazione da partito prevalentemente di mobilitazione in partito di governo locale.

Il tema del rapporto fra partito e istituzioni locali è una costante del dibattito che si sviluppa all'interno del comunismo emiliano-romagnolo; la sua collocazione egemone nel sistema politico locale ha accentuato la necessità e il rilievo della sua funzione di governo, determinando il sorgere di un "modello emiliano" e la formazione di un ceto politico-amministrativo con forti connotazioni distintive: «l'integrazione fra partito e stato (ente locale) e l'uso delle istituzioni (con la questione [...] della "subalternità" del partito all'amministrazione e della parallela "curvatura partitica" delle istituzioni) e la professionalizzazione-burocratizzazione dell'iniziativa politica complessiva».

Caratteristiche peculiari degli amministratori comunisti dell'Emilia-Romagna sono state indubbiamente il fortissimo legame col partito e la relativa assenza di elementi particolaristici e municipalistici, testimoniata dall'alto livello di mobilità intercomunale. L'amministratore comunista in Emilia-Romagna è stato spesso un funzionario politico di partito (fortemente presente negli organismi dirigenti e profondamente integrato nel gruppo "di comando" del partito) distaccato nelle istituzioni elettive; un "rappresentante popolare", espressione della domanda della periferia nei confronti del potere centrale; un "funzionario amministrativo" e insieme un "imprenditore pubblico".

Alla forte integrazione nella cultura di partito, gli amministratori comunisti emiliano-romagnoli hanno nel contempo accompagnato una altrettanto forte spinta alla "secolarizzazione" della pratica amministrativa e della stessa iniziativa politica. Alla elevata "anzianità di partito" e alla lunga esperienza amministrativa hanno poi sommato una notevole permanenza nelle cariche ricoperte.

In Emilia-Romagna inoltre si è spesso vista rovesciata la tendenza nazionale che voleva il Pci fortemente penalizzato nel passaggio dalla rappresentanza nelle assemblee elettive alla distribuzione del potere municipale, con un fortissima presenza nelle giunte e nel ceto dei sindaci.

Dal punto di vista della condizione professionale degli eletti, il ceto degli amministratori comunisti in Emilia-Romagna ha assistito a partire dalla seconda metà degli anni Settanta a una progressiva caduta del "potere contadino", al regresso del settore industriale, all'esclusione e alla marginalizzazione degli "inattivi" (disoccupati, studenti, casalinghe e pensionati) e del blocco proletario (che pure hanno sempre rappresentato le componenti centrali nell'organizzazione del partito e nello stesso elettorato comunista), all'ascesa del settore terziario e all'affermazione di un dominio della classe burocratica e impiegatizia.

Alcuni dati numerici possono infine essere utili a chiarire l'incidenza comunista nei tre enti pubblici territoriali di maggior rilievo (Comune e Provincia di Bologna, Regione Emilia-Romagna), nonché il contributo procurato dai comunisti bolognesi al Parlamento nazionale.

Dal 1945 al 1985 i consiglieri comunali eletti nelle liste del Pci e di Due torri-Pci nella città di Bologna sono stati 152. Tutti i sindaci che dalla liberazione allo scioglimento della Federazione si sono avvicendati alla guida di Bologna (Giuseppe Dozza, Guido Fanti, Renato Zangheri e Renzo Imbeni) sono stati espressione della leadership comunista. L'"anzianità di servizio" dei sindaci bolognesi ha costituito certamente per la città un elemento di continuità, anche nei confronti della gerarchia politica della Federazione provinciale: dal 1945 al 1991 si sono difatti contati a Bologna quattro primi cittadini e undici segretari di federazione.

Dal 1951 al 1985 i consiglieri provinciali eletti nelle liste del Pci nella provincia di Bologna sono stati 104.

Dal 1970 al 1985 i consiglieri regionali eletti nella lista del Pci nella circoscrizione di Bologna sono stati 23. Comunisti sono stati anche i presidenti della Giunta regionale dell'Emilia-Romagna eletti dall'istituzione dell'ente fino al 1990 (Guido Fanti, Sergio Cavina, Lanfranco Turci e Luciano Guerzoni).

Dal 1946 al 1985 i parlamentari eletti nelle liste del Pci o in liste unitarie nella provincia di Bologna sono stati 37. Il più "longevo" tra questi è stato Arturo Colombi, che sedette nell'Assemblea costituente e successivamente alla Camera e al Senato ininterrottamente dalla I alla VII legislatura.

 

5. Congressi e segretari della Federazione bolognese

Tra il 1945 e il 1991 la Federazione bolognese del Pci, che ebbe sede in via Barberia 4, celebrò 17 congressi provinciali:

- V Congresso, 30 settembre - 2 ottobre 1945, Bologna, Arena del sole e Sala farnese;
- VI Congresso, 20-22 novembre 1947, Imola, Teatro comunale;
- VII Congresso, 15-17 dicembre 1950, Bologna, Salone del podestà;
- VIII Congresso, 5-7 marzo 1954, Bologna, Teatro comunale;
- IX Congresso, 21-24 gennaio 1960, Bologna, Salone del podestà;
- X Congresso, 15-18 novembre 1962, Bologna, Salone del podestà;
- XI Congresso, 7-9 gennaio 1966, Bologna, Salone del podestà;
- XII Congresso, 19-22 dicembre 1968, Bologna, Salone del podestà;
- XIII Congresso, 8-13 febbraio 1972, Bologna, Sala dello sferisterio;
- XIV Congresso, 4-6 marzo 1975, Bologna, Salone del podestà;
- XV Congresso, 25-27 marzo 1977, Bologna, Palazzo dei congressi;
- XVI Congresso, 8-10 marzo 1979, Bologna, Palazzo dei congressi;
- XVII Congresso, 9-13 febbraio 1983, Bologna, Palazzo dei congressi;
- XVIII Congresso, 19-23 marzo 1986;
- XIX Congresso, 2-5 marzo 1989;
- XX Congresso, 20-23 febbraio 1990;
- XXI Congresso, 14-17 gennaio 1991.

Dopo Zarri e Colombi si succedettero nella carica di segretario:

- Albertino Masetti, ottobre 1948 - gennaio 1950;
- Enrico Bonazzi, gennaio 1950 - gennaio 1957;
- Celso Ghini, gennaio 1957 - gennaio 1960;
- Guido Fanti, gennaio 1960 - aprile 1966;
- Vincenzo Galetti, aprile 1966 - settembre 1973;
- Mauro Olivi, settembre 1973 - luglio 1976;
- Renzo Imbeni, luglio 1976 - aprile 1983;
- Ugo Mazza, maggio 1983 - 1988;
- Mauro Zani, 1988-1991.

Il 3 febbraio 1991, a conclusione del XX congresso nazionale inaugurato a Rimini il precedente 31 gennaio, il Pci deliberò il proprio scioglimento, promuovendo contestualmente la costituzione del Partito democratico della sinistra (Pds).